Donne in quota

di Valeria Palumbo Se è vero, ed è probabile, ciò che sostiene la Federconsumatori, ovvero che un figlio costa nel primo anno di vita, dai 6.119 ai 13.486 euro, la beffa si aggiunge all’offesa. Mi riferisco all’ennesima proposta di offrire soldi (pochi: mille euro) alle donne che accettano di non abortire. Nel maggio 2010 l’invito e l’offerta arrivarono dalla regione Lombardia. In cambio della pia rinuncia all’aborto, e prima dell’incasso di 250 euro per 18 mesi, le donne dovevano rivolgersi non a un’istituzione pubblica ma a un Centro aiuto alla vita. L’idea era di un surreale assessorato regionale alla Famiglia, conciliazione, integrazione e solidarietà sociale, guidato da un tal Giulio Boscagli. Non se ne hanno più notizie: le prediche dei Centri devono aver scoraggiato pure le più bisognose. O forse alla regione hanno cambiato idea: fatto sta che tra i (pochi) progetti dell’assessorato, presentati sul sito Internet, non ve n’è traccia. Se la vostra caccia sarà più fruttuosa sarò lieta di registrarlo. Adesso ci prova il comune di Correggio con una schiera di associazioni cattoliche che vanno dalla Caritas alla Croce Rossa e al Movimento per la vita. Il progetto, ovviamente, non si chiama “Dissuazione monetaria dall’aborto” ma “Sostegno alla maternità”. Ed è stato annunciato “in esclusiva” dal Resto del Carlino l’8 marzo. La cosa è singolare perché un servizio pubblico non potrebbe mai essere un servizio in esclusiva di un giornale: e chi non legge il quotidiano? Guarda casa sul sito del comune non v’è traccia del progetto: inserite lo slogan sulla ricerca e compare zero. Comunque l’idea girava da tempo tra i consiglieri cattolici della Provincia e il protocollo d’intesa sarebbe stato siglato a inizio marzo. Prevederebbe 150 euro mensili per 15-18 mesi alle madri residenti a Correggio che, in condizioni di disagio, entro il terzo mese di gravidanza si rivolgano al consultorio o ai servizi pubblici. L’assessore ai Servizi sociali, Maria Paparo (di cui sintetizziamo le esternazioni perché le è forse stato dato il dono della bontà ma non quello della chiarezza), parla di “cogestione del problema” da parte di pubblico e privato, e della piena applicazione della direttiva regionale 1690/2008 e della legge 194. La 194, «sia chiaro, non viene messa in discussione. L’intento è ben altro: fare in modo che problematiche di natura economico-sociale non diventino motivo di ricorso a un’interruzione di gravidanza. Soltanto così la donna è davvero libera di scegliere». Se conosco l’Italia, del progetto non se ne farà nulla. Ma è proprio ciò che afferma l’assessora che mi dà da pensare. Innanzi tutto perché i partner non pubblici coinvolti, a cominciare dal Movimento per la vita, sono da sempre schierati contro la 194 e l’aborto legale. E quindi non si capisce perché dovrebbero collaborare ad attuare la legge. Soprattutto ritengo che sia viziato il principio. Non condivido l’approccio del Gruppo 6 donna di Reggio Emilia («Accade così che l’estraneità istituzionale ti entra nella vita…», come se invece l’aborto legale si praticasse in casa e i consultori non fossero pubblici). Lo giudico anche piuttosto vecchiotto, visto che parla di invadenza e controllo degli uomini sul corpo femminile quando all’iniziativa partecipano molte donne, a cominciare dall’assessora. Viceversa trovo sensato che il progetto riguardi le donne: ammesso che qualcuno debba essere aiutato economicamente per mantenere un figlio, chi se non le donne? Però è proprio il concetto del contributo (ridicolo) che mi lascia perplessa. Soprattutto in un Paese in cui la prevenzione delle gravidanze non desiderate non esiste (ci mancava pure l’assurda condanna papale dei corsi di educazione sessuale) e anziché alla pillola ci si affida ai santi e al coito interrotto. Mi spiego: inutile negare che scegliere di fare un figlio, oggi, sia anche un problema economico. Prima li facevi, nolente o volente, sopravvivevano quelli che scampavano a fame e malattie (pochi), in qualche modo diventavano abbastanza grandi da lavorare (il primo divieto del lavoro minorile, sotto i nove anni è del 1866: per le cave si era ammessi da dieci anni in su). Se non riuscivi a mantenerli, li mettevi in seminario o in convento, o li spedivi all’estero. Adesso non puoi. E non vuoi. Ma se decidi di avere un figlio non lo fai solo perché “te lo puoi permettere”: che cos’è? Un abito griffato? E com’è che la pensavo così proprio i cattolici, sempre pronti a condannare il consumismo? Un figlio lo fai perché vuoi che un altra persona, nella sua complessità, popoli il mondo e perché credi che abbia un futuro. Ma per i paladini della maternità tutto questo è irrilevante. Che cosa faccia un bambino da un anno in su, non è più un problema. Si dà per scontato che in qualche modo sopravviva. Il che fa pensare che in uno Stato moderno, esattamente come in un fascista, non conta se cresci sano, pulito e ben educato (parlo di scuola): tanto sarai carne da cannone. O da qualcos’altro (bacini elettorali?), visto che i cannoni non richiedono più tanta carne. Ovvero, nel tentare di convincere le donne a non abortire per quattro soldi, che cosa cercano davvero di salvare i “crociati” della vita? È evidente che, per loro, la povertà della donna diventa rilevante soltanto nel momento che rimane incinta. Perché altrimenti un sostegno alle donne povere dovrebbe essere dato a prescindere dalla pancia: lo Stato (giustamente) ritiene che sia una vergogna che tu sia senza lavoro o così male in arnese da non poter decidere della tua vita e ti dà un minimo per sopravvivere. Poi scegli tu se spenderlo per trovare un lavoro migliore o fare un figlio o curarti i denti (stiamo diventando così poveri che il censo delle persone si ricomincia a distinguere dalle dentature malconce). Invece no: non hai soldi e non sei gravida? Puoi anche fare la prostituta (non in strada, perché altrimenti rovini il sonno dei benpensanti e non spillando soldi ai vecchioni se no rovini il sonno alle femministe storiche). La misura mi fa pensare ai vecchi codici penali: se venivi condannata a morte, finché eri incinta non ti portavano sulla forca. Poi il bambino nasceva e chi se ne importa se restava orfano. Ancora una volta, non era né la vita della madre né quella, reale, del bambino a contare ma solo il fatto, quasi meccanico, che il ventre gonfio si svuotasse, il pargolo uscisse da te e fosse cosa del mondo. Del tuo e del suo destino, dopo lo svezzamento, non importava a nessuno. Ed è questo che ci offende di queste misure. Perché al contrario dei “titoli” di cui si fregiano, non sono sostegni alla maternità: sono pagamenti del ventre. Non conta la madre, non conta che cosa fosse prima, che cosa sognerebbe di essere e che cosa sognerebbe per suo figlio. Né conta il bambino, le chances che avrà di crescere voluto, con adulti (quali che siano) che siano davvero interessati al fatto che sia sano, che abbia sogni e principi solidi. Se lo Stato, come credo, ha il dovere di formare buoni cittadini, queste misure sono addirittura controproducenti: è meglio dare mille euro per un anno a una madre che avrebbe abortito o a un ragazzo straniero che è venuto via dal suo Paese e che, se solo imparasse un mestiere, sarebbe presto un buon italiano? Vi sembra troppo? E allora perché non destinare quei soldi a creare lavoro? Magari con la cultura. Riaprendo i musei, i siti, i teatri, le biblioteche, tutti i luoghi d’arte chiusi, e che sono invece, per noi, gli unici pozzi di petrolio. Non è vero che se ti danno mille euro al mese per un anno, sei libera di scegliere. Perché in quell’anno non ti hanno dato, né a te, né a tuo figlio, gli strumenti per continuare a scegliere. E la libertà, forse a Correggio non lo sanno, è un lavoro che dura tutta una vita.

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