Donne in quota

La battuta mancata di Valeria Palumbo silvia_avallone_0011picNon c’è alcun nesso, lo dico subito, tra gli assassini con la patente di giudici che vogliono lapidare Sakineh Mhammadi Ashtiani in Iran, e quel “vecchio bavoso” (come Michela Murgia pare l’abbia giustamente definito) di Bruno Vespa, che alla premiazione per l’opera prima del Campiello, a Venezia, ha invitato la regia a inquadrare lo “strepitoso décolleté” di Silvia Avallone. Però viene naturale il dubbio che dietro si nasconda, in termini molto diversi e con esiti, per fortuna, molto diversi, la stessa concezione del corpo della donna come “a disposizione” del maschio. Chiunque egli sia. E a prescindere da ciò che vuole la donna. La povera Sakineh, vedova, non può andare a letto con chi pare (e per noi potrebbe andare a letto con chi le pare pure se non fosse vedova, ci mancherebbe). E la Avallone, premiata per un libro, deve subirsi gli untuosi complimenti di un signore che lei, immagino, non si sognerebbe di incoraggiare in alcun modo. E questo dà parecchio fastidio. Io però vorrei notare che, se la povera Sakineh non può fare nulla per sottrarsi al suo orribile destino (potrebbero farlo, e qualche volta ci hanno provato, le donne iraniane tutte insieme, ma forse non ne hanno ancora la forza), la Avallone poteva reagire. Ho trovato piuttosto surreale che per lei abbia protestato, e con grande lucidità, Michela Murgia: «Il comportamento di Vespa e quegli apprezzamenti non mi sono affatto piaciuti. L’avesse fatto a me, avrebbe avuto la risposta che meritava». Mentre l’Avallone ha abbozzato come una scolaretta sul palco (temeva che le togliessero il premio?) e dopo ha commentato: «Francamente preferisco fregarmene e tirare diritto, come hanno imparato a fare le donne quando ti capitano cose simili». Eh no. Sarà pur vero che certe donne devono tirare dritto. Ma se una che ha appena vinto un premio letterario prestigioso (e non un concorso di bellezza o di cucina) e sta su un palco prestigioso, non riesce a trovare le parole per rimettere il “vecchio bavoso” al suo posto e dimostrare alle altre che “si può fare”, che ne abbiamo il diritto, che ci siamo stufate, perde un’ottima occasione per spingere un po’ più in là quell’inerte confine dei diritti, che per le donne sembra sempre un po’ più inerte. La Avallone non ha scritto un manuale di floricoltura. In Acciaio ha raccontato di ragazze nate nel 1987 nella dura realtà delle fabbriche di Piombino. Lo ha fatto per vincere il premio o per dare voce a un mondo? Insomma, si è resa conto che nella sua scelta letteraria c’era anche una scelta di impegno? La Avallone aveva il diritto di vestirsi come le pareva per ritirare il premio. E su questo non ci devono essere dubbi. Se no torniamo all’Iran di Sakineh (o a quel mondo sognato dalla Chiesa che, davanti ai proclami idioti di Gheddafi sull’islamizzazione dell’Europa, ha saputo solo commentare che è peggio la laicizzazione). Ma di certo, perfino vestita da Vispa Teresa, aveva il dovere di difendere (con una battuta, per carità) la sua dignità. Per tutte le ragazze come Anna e Francesca, le protagoniste del suo libro, che sotto un riflettore importante non ci si troveranno mai. Che non potranno mai dire la loro. E che, ancora oggi, hanno la vita più dura solo e soltanto perché sono donne.

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