Donne in quota

All’interno del dibattito internazionale sulla questione di genere e di empowerment la World Bank dice: “Investire nelle donne è una parte importante delle strategie di sviluppo oltre che un problema di giustizia sociale”; “Persistenti diseguaglianze tra uomini e donne costituiscono un vincolo per la produttività di una società e ne rallentano la crescita economica”; “Promuovere l’uguaglianza di genere significa innalzare l’efficienza economica”. Nel 2011, all’interno del dibattito nazionale in previsione di un evento che avrà un impatto mondiale cioè l’EXPO 2015, le istituzioni milanesi continuano a chiudersi in una logica ottusa di radicale maschilismo. Eppure strumenti che potrebbero aiutare i nostri politici locali ad ampliare l’orizzonte, inerente a questo tema, ve ne sono molti: - Carta per le donne 2010, lanciata dalla comunità europea il 5 marzo 2010 - Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro, lanciata in Italia il 5 ottobre 2009 - Linee Guida V.I.S.P.O. - Dichiarazione di Helsinki 4 giugno 1999 - Dichiarazione di Pechino 15 settembre 1995 - Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna - Convenzione OIL (International Labour Organisation) - Parlamento e Consiglio Europeo - Attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) 2006 - Consiglio dell'Unione Europea - Attuazione il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura (2004/113/CE) 2004 - Italia - Direttiva sulle misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche2007 - Italia - Codice delle pari opportunità 2006 - Italia - Attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne2005 L’Italia o meglio le donne italiane pagano un prezzo alto, dovuto all’ottusità e all’ignoranza di alcuni rappresentanti della società e della politica italiana , ma rammarica riconoscere che tra questi vi è anche una rappresentanza femminile. Quando si andrà a votare, non sarà indifferente conoscere la visione che le candidate hanno in merito alle differenze di genere, perché per poter uscire dall’attuale stereotipo della donna italiana,è necessario confrontarsi su come le future rappresentanti istituzionali intendano dare voce ai documenti sopracitati.

di Valeria Palumbo Se è vero, ed è probabile, ciò che sostiene la Federconsumatori, ovvero che un figlio costa nel primo anno di vita, dai 6.119 ai 13.486 euro, la beffa si aggiunge all’offesa. Mi riferisco all’ennesima proposta di offrire soldi (pochi: mille euro) alle donne che accettano di non abortire. Nel maggio 2010 l’invito e l’offerta arrivarono dalla regione Lombardia. In cambio della pia rinuncia all’aborto, e prima dell’incasso di 250 euro per 18 mesi, le donne dovevano rivolgersi non a un’istituzione pubblica ma a un Centro aiuto alla vita. L’idea era di un surreale assessorato regionale alla Famiglia, conciliazione, integrazione e solidarietà sociale, guidato da un tal Giulio Boscagli. Non se ne hanno più notizie: le prediche dei Centri devono aver scoraggiato pure le più bisognose. O forse alla regione hanno cambiato idea: fatto sta che tra i (pochi) progetti dell’assessorato, presentati sul sito Internet, non ve n’è traccia. Se la vostra caccia sarà più fruttuosa sarò lieta di registrarlo. Adesso ci prova il comune di Correggio con una schiera di associazioni cattoliche che vanno dalla Caritas alla Croce Rossa e al Movimento per la vita. Il progetto, ovviamente, non si chiama “Dissuazione monetaria dall’aborto” ma “Sostegno alla maternità”. Ed è stato annunciato “in esclusiva” dal Resto del Carlino l’8 marzo. La cosa è singolare perché un servizio pubblico non potrebbe mai essere un servizio in esclusiva di un giornale: e chi non legge il quotidiano? Guarda casa sul sito del comune non v’è traccia del progetto: inserite lo slogan sulla ricerca e compare zero. Comunque l’idea girava da tempo tra i consiglieri cattolici della Provincia e il protocollo d’intesa sarebbe stato siglato a inizio marzo. Prevederebbe 150 euro mensili per 15-18 mesi alle madri residenti a Correggio che, in condizioni di disagio, entro il terzo mese di gravidanza si rivolgano al consultorio o ai servizi pubblici. L’assessore ai Servizi sociali, Maria Paparo (di cui sintetizziamo le esternazioni perché le è forse stato dato il dono della bontà ma non quello della chiarezza), parla di “cogestione del problema” da parte di pubblico e privato, e della piena applicazione della direttiva regionale 1690/2008 e della legge 194. La 194, «sia chiaro, non viene messa in discussione. L’intento è ben altro: fare in modo che problematiche di natura economico-sociale non diventino motivo di ricorso a un’interruzione di gravidanza. Soltanto così la donna è davvero libera di scegliere». Se conosco l’Italia, del progetto non se ne farà nulla. Ma è proprio ciò che afferma l’assessora che mi dà da pensare. Innanzi tutto perché i partner non pubblici coinvolti, a cominciare dal Movimento per la vita, sono da sempre schierati contro la 194 e l’aborto legale. E quindi non si capisce perché dovrebbero collaborare ad attuare la legge. Soprattutto ritengo che sia viziato il principio. Non condivido l’approccio del Gruppo 6 donna di Reggio Emilia («Accade così che l’estraneità istituzionale ti entra nella vita…», come se invece l’aborto legale si praticasse in casa e i consultori non fossero pubblici). Lo giudico anche piuttosto vecchiotto, visto che parla di invadenza e controllo degli uomini sul corpo femminile quando all’iniziativa partecipano molte donne, a cominciare dall’assessora. Viceversa trovo sensato che il progetto riguardi le donne: ammesso che qualcuno debba essere aiutato economicamente per mantenere un figlio, chi se non le donne? Però è proprio il concetto del contributo (ridicolo) che mi lascia perplessa. Soprattutto in un Paese in cui la prevenzione delle gravidanze non desiderate non esiste (ci mancava pure l’assurda condanna papale dei corsi di educazione sessuale) e anziché alla pillola ci si affida ai santi e al coito interrotto. Mi spiego: inutile negare che scegliere di fare un figlio, oggi, sia anche un problema economico. Prima li facevi, nolente o volente, sopravvivevano quelli che scampavano a fame e malattie (pochi), in qualche modo diventavano abbastanza grandi da lavorare (il primo divieto del lavoro minorile, sotto i nove anni è del 1866: per le cave si era ammessi da dieci anni in su). Se non riuscivi a mantenerli, li mettevi in seminario o in convento, o li spedivi all’estero. Adesso non puoi. E non vuoi. Ma se decidi di avere un figlio non lo fai solo perché “te lo puoi permettere”: che cos’è? Un abito griffato? E com’è che la pensavo così proprio i cattolici, sempre pronti a condannare il consumismo? Un figlio lo fai perché vuoi che un altra persona, nella sua complessità, popoli il mondo e perché credi che abbia un futuro. Ma per i paladini della maternità tutto questo è irrilevante. Che cosa faccia un bambino da un anno in su, non è più un problema. Si dà per scontato che in qualche modo sopravviva. Il che fa pensare che in uno Stato moderno, esattamente come in un fascista, non conta se cresci sano, pulito e ben educato (parlo di scuola): tanto sarai carne da cannone. O da qualcos’altro (bacini elettorali?), visto che i cannoni non richiedono più tanta carne. Ovvero, nel tentare di convincere le donne a non abortire per quattro soldi, che cosa cercano davvero di salvare i “crociati” della vita? È evidente che, per loro, la povertà della donna diventa rilevante soltanto nel momento che rimane incinta. Perché altrimenti un sostegno alle donne povere dovrebbe essere dato a prescindere dalla pancia: lo Stato (giustamente) ritiene che sia una vergogna che tu sia senza lavoro o così male in arnese da non poter decidere della tua vita e ti dà un minimo per sopravvivere. Poi scegli tu se spenderlo per trovare un lavoro migliore o fare un figlio o curarti i denti (stiamo diventando così poveri che il censo delle persone si ricomincia a distinguere dalle dentature malconce). Invece no: non hai soldi e non sei gravida? Puoi anche fare la prostituta (non in strada, perché altrimenti rovini il sonno dei benpensanti e non spillando soldi ai vecchioni se no rovini il sonno alle femministe storiche). La misura mi fa pensare ai vecchi codici penali: se venivi condannata a morte, finché eri incinta non ti portavano sulla forca. Poi il bambino nasceva e chi se ne importa se restava orfano. Ancora una volta, non era né la vita della madre né quella, reale, del bambino a contare ma solo il fatto, quasi meccanico, che il ventre gonfio si svuotasse, il pargolo uscisse da te e fosse cosa del mondo. Del tuo e del suo destino, dopo lo svezzamento, non importava a nessuno. Ed è questo che ci offende di queste misure. Perché al contrario dei “titoli” di cui si fregiano, non sono sostegni alla maternità: sono pagamenti del ventre. Non conta la madre, non conta che cosa fosse prima, che cosa sognerebbe di essere e che cosa sognerebbe per suo figlio. Né conta il bambino, le chances che avrà di crescere voluto, con adulti (quali che siano) che siano davvero interessati al fatto che sia sano, che abbia sogni e principi solidi. Se lo Stato, come credo, ha il dovere di formare buoni cittadini, queste misure sono addirittura controproducenti: è meglio dare mille euro per un anno a una madre che avrebbe abortito o a un ragazzo straniero che è venuto via dal suo Paese e che, se solo imparasse un mestiere, sarebbe presto un buon italiano? Vi sembra troppo? E allora perché non destinare quei soldi a creare lavoro? Magari con la cultura. Riaprendo i musei, i siti, i teatri, le biblioteche, tutti i luoghi d’arte chiusi, e che sono invece, per noi, gli unici pozzi di petrolio. Non è vero che se ti danno mille euro al mese per un anno, sei libera di scegliere. Perché in quell’anno non ti hanno dato, né a te, né a tuo figlio, gli strumenti per continuare a scegliere. E la libertà, forse a Correggio non lo sanno, è un lavoro che dura tutta una vita.

La battuta mancata di Valeria Palumbo silvia_avallone_0011picNon c’è alcun nesso, lo dico subito, tra gli assassini con la patente di giudici che vogliono lapidare Sakineh Mhammadi Ashtiani in Iran, e quel “vecchio bavoso” (come Michela Murgia pare l’abbia giustamente definito) di Bruno Vespa, che alla premiazione per l’opera prima del Campiello, a Venezia, ha invitato la regia a inquadrare lo “strepitoso décolleté” di Silvia Avallone. Però viene naturale il dubbio che dietro si nasconda, in termini molto diversi e con esiti, per fortuna, molto diversi, la stessa concezione del corpo della donna come “a disposizione” del maschio. Chiunque egli sia. E a prescindere da ciò che vuole la donna. La povera Sakineh, vedova, non può andare a letto con chi pare (e per noi potrebbe andare a letto con chi le pare pure se non fosse vedova, ci mancherebbe). E la Avallone, premiata per un libro, deve subirsi gli untuosi complimenti di un signore che lei, immagino, non si sognerebbe di incoraggiare in alcun modo. E questo dà parecchio fastidio. Io però vorrei notare che, se la povera Sakineh non può fare nulla per sottrarsi al suo orribile destino (potrebbero farlo, e qualche volta ci hanno provato, le donne iraniane tutte insieme, ma forse non ne hanno ancora la forza), la Avallone poteva reagire. Ho trovato piuttosto surreale che per lei abbia protestato, e con grande lucidità, Michela Murgia: «Il comportamento di Vespa e quegli apprezzamenti non mi sono affatto piaciuti. L’avesse fatto a me, avrebbe avuto la risposta che meritava». Mentre l’Avallone ha abbozzato come una scolaretta sul palco (temeva che le togliessero il premio?) e dopo ha commentato: «Francamente preferisco fregarmene e tirare diritto, come hanno imparato a fare le donne quando ti capitano cose simili». Eh no. Sarà pur vero che certe donne devono tirare dritto. Ma se una che ha appena vinto un premio letterario prestigioso (e non un concorso di bellezza o di cucina) e sta su un palco prestigioso, non riesce a trovare le parole per rimettere il “vecchio bavoso” al suo posto e dimostrare alle altre che “si può fare”, che ne abbiamo il diritto, che ci siamo stufate, perde un’ottima occasione per spingere un po’ più in là quell’inerte confine dei diritti, che per le donne sembra sempre un po’ più inerte. La Avallone non ha scritto un manuale di floricoltura. In Acciaio ha raccontato di ragazze nate nel 1987 nella dura realtà delle fabbriche di Piombino. Lo ha fatto per vincere il premio o per dare voce a un mondo? Insomma, si è resa conto che nella sua scelta letteraria c’era anche una scelta di impegno? La Avallone aveva il diritto di vestirsi come le pareva per ritirare il premio. E su questo non ci devono essere dubbi. Se no torniamo all’Iran di Sakineh (o a quel mondo sognato dalla Chiesa che, davanti ai proclami idioti di Gheddafi sull’islamizzazione dell’Europa, ha saputo solo commentare che è peggio la laicizzazione). Ma di certo, perfino vestita da Vispa Teresa, aveva il dovere di difendere (con una battuta, per carità) la sua dignità. Per tutte le ragazze come Anna e Francesca, le protagoniste del suo libro, che sotto un riflettore importante non ci si troveranno mai. Che non potranno mai dire la loro. E che, ancora oggi, hanno la vita più dura solo e soltanto perché sono donne.

Il Medioevo fra noi

Di Valeria Palumbo

Credo di aver scoperto un importante frammento medievale. Il posto è insolito, il Magazine del Corriere della Sera del 9 settembre 2010. L’autore, Antonio D’Orrico, noto, credo, solo ai papirologi, si è però distinto (o è un suo omonimo?) per alcuni singolari giudizi letterari da alcuni, forse affrettatamente, definiti “clamorose cantonate”. Che il frammento, dedicato alla mancanza di talento delle donne nelle lettere, sia medievale lo deduco da elementi stilistici e di contenuto: ignora due poetesse del calibro di Saffo (quindi è stato composto prima che si ricominciasse a leggere il greco) e Sulpicia (ovvero attribuisce forse ancora a Tibullo i suoi versi). Non sa delle memorie perdute ma lodatissime di Agrippina. Ignora la battaglia di Christine de Pizan (1362 - 1431 circa) per diventare “femme de lettres” (diventò “homme de lettres” perché all’epoca lo scandalo di una donna scrittrice era giudicato eccessivo). Non sa nulla della valanga di scrittrici di valore che attraversarono il nostro Rinascimento, il Seicento e il Settecento e che oggi vengono sempre più scoperte e rivalutate, dalla poetessa Gaspara Stampa alla commediografa Aphra Behn (che ebbe il coraggio di sfidare l’equazione tipica dell’epoca: donna che pubblica uguale puttana, donna che scrive per il teatro uguale puttana al quadrato). E ripete stilemi misogini della Querelle des femmes che si sono esauriti da secoli. Unico elemento distonico: l’autore cita con accenti positivi Jane Austen. Ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di un’omonima, anche perché, da George Eliot, che ha scritto un capolavoro come Middlemarch, a Mary Shelley, inventrice di Frankenstein, ignora tutte le grandi scrittrici britanniche a lei contemporanee. Non parliamo dei periodi successivi: D’Orrico evidente non può sapere che gli ultimi Nobel per la letteratura siano andati spesso a donne, da Nadine Gordimer (1991) a Elfriede Jelinek (2004), da Doris Lessing (2007) a Herta Müller (2009), da Toni Morrison (1993) a Wiesława Szymborska (1996). Diamo per scontato che non sappia nulla di scrittrici come Marguerite Yourcenar, Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Christa Wolf. Nè di poetesse come Anna Achmatova, Marina Cvetaeva e Renée Vivien. Anche perché, per vincere il premio come migliore poeta dell’anno, nel 1902, la povera Renée dovette trovarsi un nome maschile, esattamente come fece Karoline von Günderrode che dovette pubblicare come Tian e accettare, dopo le grandi lodi inziali, gli insulti di chi scoprì che non era un maschio. Che perfino in tempi moderni, J.K. Rowling abbia dovuto ricorrere allo stesso mezzuccio perché se no gli editori non la volevano, il buon amanuense D’Orrico non poteva proprio saperlo. Il fatto che alcune sue fan (del succitato D’Orrico) di sesso femminile gli diano ragione può non essere determinante nella datazione: potrebbero risalire anche loro al Medioevo, nonostante l’uso dell’email (forse una cattiva traduzione del termine?). O più semplicemente, come sospettiamo, potrebbero avere, in quanto fan, lo stesso difetto del D’Orrico: scarsa memoria (o scarse letture?). Poiché le righe sono contate e le scrittrici di talento un’infinità, concludo quest’inutile pagina (risposta di una colonna inutile ma apparsa ahimé su un giornale autorevole) con un paio di suggerimenti tra le ultime uscite “femminili”. Non al D’Orrico che, se le mie ipotesi di datazione sono corrette, è ormai estinto. Ma a chi ama la buona letteratura: leggete Rosamund di Rebecca West (Mattioli 1885) che fa parte di una bellissima trilogia e racconta molto bene che vuol dire essere donne e artiste. Affrontate la dura Natsuo Kirino de L’isola dei naufraghi (Giano). E due italiane che non saranno Stendhal ma sono molto meglio di Giorgio Faletti, adorato dal nostro D’Orrico: Licia Giaquinto con La ianara (Adelphi), e Michela Murgia con Accabadora (Einaudi). E poi, tanto per capire come, in molti Paesi (in Italia, fra gli altri) alle donne non è stato solo vietato di scrivere e pubblicare, ma perfino di leggere, date un’occhiata a Le cose che non ho detto dell’iraniana Azar Nafisi (Adelphi). Il nostro medievale d’Orrico, sempre se la mia tesi è corretta, deve necessariamente ignorare che oggi le scrittrici sono in primo piano perfino nella lontana ed esotica Persia, che le lettrici sono da tempo in maggioranza e le donne editori aumentano a vista d’occhio. Però non dirò (come sotto sotto credo) che sia giunto il momento in cui, anche nei grandi e autorevoli giornali, i critici di sesso maschili cedano il posto alle colleghe dell’altro sesso. Mi basterebbe che le incrostazioni medievali, e i loro intarsiatori, cedessero il passo ai giornalisti del XXI secolo.

Ma quale amore?! di Valeria Palumbo Sono indignata e preoccupata da come i quotidiani nazionali, a cominciare dal Corriere della Sera e dalla Repubblica (ossia da chi non te l'aspetti), stanno trattando l'ondata di assassinii di donne. Sabato 10 luglio il Corriere della Sera titolava "E l'amore si trasforma in sangue". Peggio ancora ha fatto la Repubblica lunedì 12 luglio in un articolo di Nicola Pellicani che racconta l'assassinio di una ragazza di 16 anni, Eleonora Noventa, a opera di un pazzo (ma non bisognerebbe neanche definirlo così: se ne sminuisco le responsabilità), Fabio Riccato, di anni 30, che si è poi ammazzato. Pellicani parla di "tragedia dell'amore". Stiamo scherzando?! Ma quale amore?! Molto più correttamente uno psichiatra Stefano Ferracuti,professore Associato di Psicologia Clinica alla Sapienza di Roma, intervistato il 12 luglio dal Gr1 delle 8 ha detto (www.radio.rai.it/grr/grcontinua.cfm?GR=1&L_DATA=2010-07-12&L_ORA=08:00#), a proposito dell'uccisione di Eleonora: 1. Questi sono uomini con disturbi gravi della personalità e i disturbi gravi sono in aumento soprattutto fra gli uomini. A contribuire al disordine è il consumo crescente di cocaina che rende paranoici. 2. Questi uomini non riescono ad accettare il fatto che le donne siano cambiate, e non solo non subiscono più la violenza tradizionale che la società ha sempre imposto alle donne, soprattutto all'interno della famiglia, ma sono ormai autonome e in grado di decidere per se stesse. Ancora una volta: ma quale amore? Basta usare termini come "gelosia", espressioni come "non poteva fare a meno di lei", "delitto passionale" e altre cretinate da romanzo d'appendice (o di tribunale italiano degli anni CInquanta e Sessanta). Occorre reagire. E affrontare il tema nelle scuole: davvero i ragazzi parlano ancora in questi termini? Sono persuasa che il primo errore (soprattutto dei media) è bollare queste violenze come novità: la violenza sulle donne è un pilastro della società patriarcale. Ed è sempre scattata nei casi di ribellione. La differenza, forse, è che oggi la “ribellione” è diventata standard. Sono loro “i maschi resistenti” a doversi adeguare. Perché lo facciano occorre che prima arrivino le leggi. E un mutato atteggiamento dei media. Il linguaggio non è indifferente. Ma a proposito: dov’è in questi giorni il governo (e non solo la ministra alle Pari opportunità? Perché considera un’emergenza approvare la legge bavaglio e non fermare l’ondata di ginocidi? Sarà mica perché il premier è, come si autodefinisce, un “playold” che invoca gli astanti al Med Forum di Milano (repubblica.it, 12 luglio 2010): «Qualche volta portatevi anche qualche bella ragazza, signori ambasciatori, perché so che anche questo è un merito che tutti quanti siete molto orgogliosi di portare. E noi lo apprezzeremmo molto, perché siamo latini». Old, troppo old.

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