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La Aleramo scrisse il suo romanzo autobiografico più famoso, "Una donna" nel primo decennio del Novecento. Chi lo ha letto sa bene cosa e quanto costi per lei l'emancipazione: nessuna conciliazione, solo rinuncia. Durante il fascismo la donna era schiava del focolare: un ruolo istituzionalizzato, idealizzato, esaltato, reso positivo dalla propaganda. Le Grandi Guerre hanno portato le donne nelle fabbriche, al posto di mariti, fratelli, figli impegnati al fronte: erano schiave della guerra perché producevano gli strumenti che avrebbero ucciso i loro uomini. La Repubblica ha dato alla donna il diritto di voto, sacrosanto, che dà all'individuo il diritto di esistenza politica. Poche le donne che lavoravano in periodo di Ricostruzione, per giunta malpagate e maltrattate, in sostituzione, ancora una volta, di quella forza lavorativa maschile sotterrata dalla guerra. Il boom economico (e siamo già agli anni Cinquanta) ha visto una massiccia presenza delle donne nelle fabbriche: le sartine diventavano operaie tessili, le diplomate magistrali maestre, le carine commesse nelle catene della grande distribuzione. E poi. E poi le lotte per i diritti, il femminismo, l'emancipazione: il corpo è mio, e non c'è stato che possa comandarmi su cosa farci. Posso affermare, secondo questa sommaria ricostruzione, che l'emancipazione delle donne sia cominciata in Italia un decennio dopo il secondo dopoguerra, in ritardo di circa un secolo rispetto ai paesi protagonisti della Rivoluzione Industriale (Gran Bretagna, Francia e Germania su tutte)?

Valentina Paternoster