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Maternità surrogata: le novità

Di Alessia Sorgato

Tutte noi, chi più, chi meno, sappiamo che in Italia è vietata la fecondazione artificiale eterologa e la maternità surrogata, ma – soprattutto alla luce di due importanti sentenze appena uscite - è bene tornare sul tema e cercare di offrire qualche chiarezza in più, anche definitoria.

Anzitutto si definisce coppia committente quella che stipula un accordo di maternità con una donna che, in cambio, percepisce un compenso (questa è consentita solo in Sud Africa, Grecia, Russia, Georgia, Ucraina ed Israele), mentre si chiama coppia intenzionale quella che le fornirà solo un simbolico rimborso spese.

Secondo il diritto italiano, la natura più o meno commerciale o altruistica del patto, che prevede comunque la consegna del bambino, è del tutto ininfluente, come è superfluo che la gestante ricorra a ovuli della donna o propri, in tal caso essendo poi genitore biologico del bebè che andrà a consegnare.

La violazione del principio etico sussiste comunque perché, per chi rifiuta la maternità surrogata, esso si identifica nella illegittimità di creare una vita umana con l’intenzione di abbandonarla.

Non si tratta di principi meramente religiosi, secondo costoro, bensì (anche) di conseguenze pregiudizievoli per il bambino, degradato a qualcosa di commerciabile, eventualmente anche oggetto di contrattazioni o contenziosi (Mantovani, Principi personalistici di biodiritto, in http://www.scienzaevitafirenze.it).

Esistono evidentemente anche persone che la pensano molto diversamente e, partendo dal presupposto che la madre-incubatrice può essere mossa da intenzioni altruistiche come pure che l’interesse del bambino potrebbe coincidere proprio nel fatto di affidarlo ad altri, che gli possano fornire maggiori chance di sviluppo e crescita, arrivano poi a sostenere la maternità surrogata anche scientificamente, un po’ come se si trattasse di una donazione alla stregua di quella del sangue, del midollo osseo e del rene da viventi (Veronesi, Ma è immorale l’utero in affitto? In www.fondazioneveronesi.it, 2013).

Sia come sia in Italia permane il divieto ed è fortemente presidiato dalla legge 40 del 2004 e, con un’accezione molto peculiare, persino dal codice penale con l’articolo 567.

 

LA LEGGE N. 40 DEL 2004

La legge 40 sanziona con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600mila a un milione di euro chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità. Gli operatori sanitari sono puniti anche con la sospensione dall’esercizio professionale.

Questa norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza 10 giugno 2014 n. 162 laddove vieta il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (acronimo PMA) di tipo eterologo qualora diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. Il 14 aprile 2015 la Consulta ha ulteriormente fatto cadere il divieto per le coppie portatrici di malattie genetiche.

In altre parole, in queste due ipotesi la coppia può far ricorso a tecniche di fecondazione eterologa, utilizzando gameti che non provengono dagli interessati ma da un donatore estraneo.

Ma non sono certamente molte le coppie che rientrino in queste due ipotesi per cui rimane di grande interesse verificare come si atteggino i giudici italiani di fronte al fenomeno del c.d. turismo riproduttivo, quel migrare in paesi dove l’utero in affitto è permesso e lì stipulare accordi con donne consenzienti.

 

LE SENTENZE

Scorrere le sentenze già disponibili in materia è molto istruttivo: il primo caso fu trattato a Monza ancora nel 1989 – pre legge 40 dunque – e riguardò una coppia che si era messa d’accordo con una donna affinchè costei consentisse la fecondazione artificiale da parte del marito e poi rifiutava di consegnare il bambino, o comunque tirava su il prezzo pattuito.

Il tribunale riconobbe la filiazione naturale e negò ogni legittimità al contratto di maternità surrogata, consentendo comunque l’inserimento della bambina nella famiglia del padre biologico.

Al contrario, il tribunale di Roma nel febbraio 2000 ritenne legittimo l’accordo – che non prevedeva corrispettivi in denaro – e negò che si ponesse in contrasto con le norme sull’adozione: è pur vero che ci si trovava di fronte ad un caso che anche oggi troverebbe consenso perché la madre, per una malattia genetica, non riusciva a portare a termine la gravidanza pur producendo ovociti.

La giurisprudenza successiva si è dedicata pressochè al diverso fenomeno dell’eventuale applicazione dell’articolo 567 del codice penale, che punisce la c.d. alterazione di stato, ossia la falsità delle dichiarazioni all’ufficiale di stato civile allorquando redige (o più spesso trascrive) l’atto di nascita.

Ci si è infatti chiesti se sia applicabile al caso della coppia che si reca all’estero in cerca di una <mére porteuse>, si dichiara genitore biologico del bebè che nasce dall’accordo con costei e poi cerca di far trascrivere questo atto di nascita (ideologicamente falso) all’ufficiale di stato civile italiano.

Nel 2013 il Tribunale di Milano rispose negativamente: la coppia si era uniformata alla legge del luogo dove il bimbo era nato, ossia quella ucraina, e contemporaneamente si era adeguata alla norma italiana, che nuovamente rinvia alle norme locali stabilite alle autorità competenti. Venne così assolta.

La successiva trascrizione dell’atto di nascita in Italia, poi, non aveva violato l’ordine pubblico ideale, perché in esso a far da principio cardine è quello della responsabilità procreativa nell’interesse della prole, che ben può essere salvaguardato ammettendo la filiazione di un padre sociale.

Diametralmente opposte le conclusioni del Tribunale di Brescia, nel novembre dello stesso anno (le si può trovare entrambe nel sito www.penalecontemporaneo.it con valide note di commento).

Condannando la coppia (il cui “lui” era di fatto il padre biologico ma entrambi avevano dichiarato il falso nel indicare la “lei” come madre dei due gemelli nati da surrogacy a Kiev), il Tribunale enfatizza che al neonato vada assicurato uno stato di famiglia corrispondente alla sua effettiva discendenza. Furono quindi condannati.

A ben guardarle, però, le due sentenze differiscono nelle conclusioni perché differiscono nella interpretazione della normativa di riferimento, ossia quella ucraina, che nel caso deciso a Milano consentiva il tipo di accordo stipulato e, nel caso bresciano, non lo permetteva.

 

CONCLUSIONI

Ora come ora, al di là delle legge del paese dove gli italiani vanno a rivolgersi rincorrendo il loro desiderio di genitorialità, il tema mi pare presidiato da un principio univoco: in Grecia, in Ucraina, in Canada, ovunque la maternità surrogata sia permessa, o consentita a certe condizioni, quella liceità ha confini ristretti e diritto ad essere rispettata, ma in quei Paesi e non automaticamente anche qui da noi, perché qui vige il principio opposto, è vietata.

Espatriare alla ricerca di vuoti normativi o di leggi permissive può essere certamente comprensibile dal punto di vista umano, sempre che si ammetta l’utero in affitto, ma non deve permettere l’elusione del precetto italiano.

Si espatria e lì si rimane, se si intende vivere nella legalità. Se invece si ritorna qui, non si può pretendere che i giudici italiani applichino la legge straniera perché è principio generale invece quello di territorialità: in Italia si rispetta la legge italiana, e nessuno può addurre a sua discolpa di non conoscerla. Ignorantia legis non excusat.

Tra l’altro ora sono leggibili le motivazioni dell’affaire Paradiso e Campanelli contro Italia, stese dalla Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo e depositate le scorso 24 gennaio 2017.

Nella lunghissima sentenza, che ripercorre il caso di una coppia della provincia di Campobasso che per anni aveva atteso il bimbo chiesto in adozione, sottoponendosi inutilmente alle tecniche consentite di fecondazione in vitro, e poi si era recata a Mosca ove aveva ottenuto un bebè, non vi è spazio alcuno per eventuali deroghe alla normativa nazionale.

Tutto è stato analizzato compiutamente: il fatto che i due fossero convinti che in Russia la fecondazione era avvenuta con gameti del marito; il fatto che le psicologhe incaricate dal Tribunale dei Minori avessero dichiarato che il bambino veniva accudito con attenzione e profondo amore; la circostanza che avesse già convissuto coi ricorrenti quasi 10 mesi, formando (secondo alcuni dei giudici europei membri) una vita famigliare a tutti gli effetti.

Ma sul punto dolente, ossia la legittimità giuridica del provvedimento con cui il piccolino era stato loro tolto e dato in adozione ad altri, anche a Strasburgo la risposta è stata affermativa: questo esige la legge italiana e questo rischia chi provi ad aggirarla.

E, se può servire, si sappia che in novembre del 2016 la Corte costituzionale ha dichiarato sì che la pena in origine prevista per l’alterazione di stato sia eccessiva, ma di fatto anche ora rimane un reato molto grave, punito da 3 a 10 anni di carcere.

Che in Italia poi le adozioni siano costose, lunghe, irte di ostacoli è assolutamente un dato di fatto, ma ciò non autorizza a bypassare anche questa legge.