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- Categoria: Donne e Media
- Pubblicato: 17 Ottobre 2013
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DONNE, PUBBLICITÀ, NORMALITÀ: L’INUTILE LEGGEREZZA DELLE PAROLE DI UNA DELIBERA
articolo firmato da: Paola Ciccioli, Antonella Coccia, Mariagrazia Ghezzi, Donatella Martini, Adriana Nannicini apparso su Arcipelago Milano del 2 ottobre. Stupore e una cascata di domande preoccupate. Questo ha generato il secondo punto della Delibera del Comune di Milano del 28 giugno su: “Indirizzi fondamentali in materia di pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità della donna” in cui si legge che sono considerati “messaggi incompatibili con
l’immagine che intende promuovere: (…) punto 2) le immagini volgari, indecenti, ripugnanti, devianti da quello che la comunità percepisce come “normale”, tali da ledere la sensibilità del pubblico.” I termini che qui troviamo Normale, Comunità, non si leggono con leggerezza e nonchalance. Stupisce e dispiace leggere questi riferimenti confusivi in una Delibera che vuole contrastare la diffusione della pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità delle donne. Le regole approvate dalla Giunta di Palazzo Marino per la valutazione dei messaggi da affiggere sugli spazi in carico all’Amministrazione comunale si articolano in 5 punti. Il punto 2, richiamato sopra, appare in evidente contraddizione con gli altri.
Sono cinque le tipologie di messaggi che non sono ritenute compatibili: 1) rappresentazioni di atti di violenza fisica o morale o immagini che incitano atti di violenza; 2) le immagini volgari, indecenti, ripugnanti, devianti da quello che la comunità percepisce come “normale”, tali da ledere la sensibilità del pubblico; 3) i messaggi discriminatori e/o degradanti che, anche attraverso l’uso di stereotipi, tendono a collocare le donne in ruoli sociali di subalternità e disparità; 4) la mercificazione del corpo, attraverso rappresentazioni o riproduzioni della donna quale oggetto di possesso o sopraffazione sessuale; 5) i pregiudizi culturali e gli stereotipi sociali fondati su discriminazione di genere, appartenenza etnica, orientamento sessuale, abilità fisica e psichica, credo religioso.” Il testo della delibera è stato distribuito nel corso di un convegno dal titolo “Quando comunicazione fa rima con discriminazione” che si è tenuto lo scorso 17 settembre nella Sala Alessi di Palazzo Marino, occasione per presentarla e per fare comparazioni con analoghe o diverse iniziative sullo stesso tema in altre città e amministrazioni.
Oggi non ci preme discutere qui tutta la delibera, il suo quadro di senso, possiamo certamente dire che è apprezzabile e significativo e rilevante … se non fosse che c’è il punto 2 e il quadro si confonde e qualche preoccupazione sorge tra alcune donne di Milano e di altrove. Quali le domande che suscita in noi come in altre? Solo per citare il collettivo Ambrosia e Politica femminile Lombardia.
Forse siamo in ritardo (la delibera è di giugno, il convegno di un paio di settimane fa) ma non lo è la questione che il tema pone, che riaffiora a ogni occasione. In questi giorni è la Presidente Boldrini a fare richiami sulle immagini stereotipate nei tanti spot pubblicitari della “donna che serve a tavola”, e dunque la dichiarazione riferibile di Barilla: “Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale.”
Potremmo anche domandarci: la “famiglia tradizionale” per, e a cui, vendere pasta non è in fondo coerente a una delle possibili letture di questo punto 2? Infatti, quale sarà la “normalità” che la “comunità” di riferimento percepisce? Come la percezione verrà rilevata e una misurazione adeguata applicata? Chi, tra i tanti funzionari del Comune di Milano, si accollerà l’arduo compito amministrativo un giorno dopo l’altro, cartellone dopo cartellone? Perché si è avvertita l’esigenza di utilizzare questo concetto? Perché dimenticare che è stato Franco Basaglia a insegnarci che “da vicino nessuno è normale”, che troppo facilmente la normalità si fa norma, e appunto legiferando discerne tra chi lo è e chi non lo sarebbe. E poi cosa?
Assunto questo principio in norme e normative comunali, perché non immaginare che un anonimo funzionario o una Giunta di diverso colore lo utilizzino per decidere quanto sia “psichicamente normale” quel paziente (o ex tale) per ottenere un lavoro, quanto sia “sessualmente normale ” quella famiglia per ottenere l’accesso alla lista delle case popolari … e via discorrendo. Senza correre troppo avanti già adesso nota il collettivo Ambrosia “E se il pubblico trovasse ripugnante vedere due donne che si baciano? E se la comunità ritenesse indecente una donna grassa in bikini? E se trovasse volgaridue uomini che si tengono per mano”? (la Giunta nel corso dell’ultimo anno ci ha spesso ricordato che la “macchina comunale è complicata, lenta, immodificabile”).
La normalità che si fa norma ha una forza lo sappiamo, riappare, riemerge e rischiamo di ritrovarla laddove non sembrava prevista. Soprattutto perché il punto la coniuga con “comunità”, che per primo Tonnies contrappose a “società”, e la tensione tra i due termini è recentemente riattualizzata da un sociologo a pieno titolo divulgatore europeo, Bauman che argomenta in un suo fortunato testo: “l’attrazione che la comunità (…) esercita poggia sulla promessa di semplificazione, poiché significa l’espunzione delle differenze (…). L’unità comunitaria è fondata sulla divisione (di chi non ne fa parte), sulla segregazione, sul mantenere le distanze.” Nella battaglia contro l’incertezza, la comunità cede libertà degli individui in cambio di sicurezza. Nella società accade il contrario, restando sempre in ambito disciplinare, poiché Milano città Metropolitana aperta all’Europa e al mondo, assomiglia certo più a una società che non a una comunità preindustriale.
A quest’immagine intendeva riferirsi il punto 2? Un concetto di “normalità” percepito come tale da una comunità che evita le differenze? Già a fine giugno il Corriere della Sera scriveva che “(…) uno dei punti destinati a far discutere sarà il punto 2 (…) quale percezione della normalità?” La lotta contro la pubblicità sessista è infatti una lotta a un’immagine di “normalità femminile”, che sia la madre stereotipata di cui sopra, o una fanciulla denudata ad accarezzar auto … anche questa è stata “normalità”, quella ormai criticata da più di dieci anni come immagine stereotipata e sessista.
E infine, ma non per importanza: questa Delibera presentata sul sito del Comune, nelle interviste della vicensindaco e negli interventi alla giornata del 17 settembre, non è considerata come un atto puramente di amministrazione ordinaria, ma piuttosto come: “Un bel lavoro condiviso tra Giunta, Consiglio e delegata alle Pari Opportunità.”
“Sono particolarmente soddisfatta di questo obiettivo raggiunto – dichiara la delegata del Sindaco alla Pari Opportunità Francesca Zajczyk – sia per il contenuto sia per il metodo. Questo provvedimento, infatti, è il risultato di un lavoro comune con le altre figure istituzionali in prima fila sui temi della parità e dei diritti, ognuna con le proprie competenza e sensibilità, come le consigliere Marilisa D’Amico e Anita Sonego. Ma è anche il prodotto di un percorso di ascolto e confronto con esperte ed esperti, professioniste e politiche impegnate su questi temi.”
Condiviso dunque anche questo punto 2? Quali sollecitazioni sul tema della normalità hanno proposto le esperte e le politiche? Hanno sollevato perplessità? Chi in questo percorso condiviso l’ha proposto? E una discussione dove è avvenuta? Tante assemblee in Sala Alessi, qualche riunione di un tavolo sulla Pubblicità Sessista, e il tema non è stato sottoposto alla partecipazione delle donne milanesi? Sappiamo che il ruolo della Delegata è a Milano un ruolo a costo zero, a lungo senza un ufficio. Non ha fondi e finanziamenti che possa gestire direttamente. Non capiamo l’origine e le motivazioni di queste scelte, tantomeno a metà mandato di questa amministrazione e mentre un protagonismo femminile è presente in tanti e diversi luoghi della città, prende parola su temi che vanno oltre le emergenze. Perché il ruolo della Delegata mantenga questi contorni “sottili” non ci è chiaro, mentre è chiaro che limitate possono essere le nostre interlocuzioni con un ruolo così disegnato.
Alla Giunta e al Consiglio dunque chiediamo di eliminare quel punto 2, non emendabile. L’intera delibera guadagnerà dignità.