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- Categoria: Violenza
- Pubblicato: 08 Marzo 2016
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Milano, 08 Marzo 2016
di Alessia Sorgato
Sembra che quest’anno, pochi mesi dopo che l’uomo è riuscito a fotografare la particella della luce, a modificare il genoma di piante, batteri ed animali e a sorvolare Plutone, la donna si debba ancora (pre)occupare se resta incinta e, per i svariati motivi, non può o non vuole portare la termine la gravidanza.
Quarant’uno anni dopo che la Consulta, con l’epica sentenza n. 27 del 12 maggio 1975, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 546 del codice penale nella parte in cui puniva (con la reclusione da due a cinque anni) sia la donna consenziente che il medico che le aveva cagionato un aborto, torniamo a leggere dati allarmanti in materia di interruzione volontaria di gravidanza.
La legge n. 194, per cui si è lottato tanto, ispirata alla tutela della maternità – sia pur nella sua peculiare accezione di protezione anzitutto della donna – ha subìto un colpo molto duro, infertole dal decreto legislativo pubblicato lo scorso 22 gennaio, e pochi se ne sono accorti.
Tra i reati, in origine puniti con la sola ammenda (ossia la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni), oggi depenalizzati si colloca infatti anche il caso di una donna che si sottoponga ad IVG fuori dai casi previsti dalla legge che si distinguono – lo ricordiamo – a seconda di quanto tempo sia trascorso dal concepimento. Entro 90 giorni, se la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione allo stato di salute, alle condizioni economiche, sociali, famigliari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito (articolo 4).
Anche dopo i 90 giorni in due casi: quando gravidanza o parto comportano un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati dei processi patologici (come quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro) che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ora, a seguito del decreto di gennaio, quella donna che abortisca fuori da quelle ipotesi (rispettivamente prima o dopo i 90 giorni) non rischierà più 51 euro di ammenda bensì dai 5000 ai 10.000 euro.
Non è facile capire cosa realmente comporti questa modifica di legge perché, se la si interpreta superficialmente, si può liquidare la faccenda con un’alzata di spalle all’italiana: se lo Stato voleva guadagnarci, si è illuso. Sì perché quello che viene punito, con quella salatissima multa, altro non è che l’aborto clandestino, roba da prostitute, immigrate clandestine e minorenni (come se queste fossero le donne che vi ricorrono).
Ma non è così.
Facciamo un passo indietro e spostiamo leggermente l’angolo visuale. Una delle materie che si insegnano alla facoltà di legge si chiama Storia del diritto italiano e, a mio parere, dovrebbe essere studiata sin dalle elementari, perché una norma non è più un’imposizione quando si apprende come e perché si è arrivati ad introdurla. Un’imposizione sa di tirannia quindi viene davvero voglia di sfuggirle o di provare ad eluderla. Una regola, se conosciuta ed approfondita, si può condividere e quindi rispettare ed applicare.
Il codice penale del 1930 puniva l’aborto perché contrastante con la <integrità e la sanità della stirpe>, concetti ancestrali, frutto dell’ideologia allora in voga. Poi, nel 1975, grazie a quella sentenza epocale, si diede pregio alla condizione della gestante e si ritenne che il suo benessere, fisico e psicologico, dovessero prevalere persino sugli interessi del concepito.
La legge 194 del 1978 recita nel suo preambolo che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità, tutela la vita umana dal suo inizio e non considera l’interruzione volontaria della gravidanza come mezzo per il controllo delle nascite. Cionondimeno, anzi, proprio per queste motivazioni, ne ammette e disciplina i casi.
Allora perché quella ammenda di 51 euro (in origine di 100.00 lire) per le donne che abortivano fuori dai casi considerati?
Questa è la domanda da porsi, e subito dopo: perché adesso quella ammenda è stata centuplicata?
Le pratiche abortive esistono dalla notte dei tempi: se per i contadini controllare le nascite era questione di proporzione tra braccia da lavoro e risorse di cibo, per nobili e gentiluomini (privi di mezzi contraccettivi) significava conservazione del patrimonio. Prezzemolo, segale cornuta, catrame e, soprattutto, ferri da calza e mammane, per le più abbienti, invece, medici clandestini e i loro “cucchiai d’oro”.
Oggi si ricorre a farmaci, come prostaglandine o il mifepristone (che toglie ossigeno e nutrimento all’embrione) o ancora il misoprostolo, che è contenuto nel Cytotec, un gastroprotettore nato contro l’ulcera, molto efficace anche per abortire. .. quando va bene, perché se la sua assunzione (in vagina) si rivela inefficace, possono insorgere gravi complicazioni, come la setticemia.
Correre in ospedale, dichiarando di essersi sottoposta ad un aborto clandestino, fino al 2015 significava per la donna rischiare 51 euro di multa ma salvarsi la vita, o la possibilità di generare ancora.
Quante lo faranno, ora che si rischia sino a 10mila euro? Quante preferiranno tacere, rimediare con qualche “fai da te” recuperato in internet, e rischiare?
E allora proviamo a rispondere alla seconda domanda: perché lo Stato italiano vuole costringere nel buio e nella clandestinità queste donne, probabilmente giovani, quasi sicuramente lontane da circuiti di integrazione e socializzazione? Per guadagnarci? Difficile. Per diminuire il carico dei giudici penali chiamati a istruire un processo? Ancora più difficile: in ventidue anni di avvocatura a Milano non ho visto aprirsi neppure un fascicolo (anche se pare che ora Genova e Torino inizino ad occuparsene, forse in quanto città a fortissima concentrazione di etnie, come la nigeriana e la cinese, che pare pratichino con dimestichezza l’aborto clandestino).
Io ho un sospetto. La legge 194 ha stabilito che ogni caso (ospedaliero o tramite consultorio) di interruzione volontaria di gravidanza vada segnalato allo Stato attraverso la compilazione dell’apposito modulo D12 dell’Istat ed ogni anno il Ministero della Salute rediga una Relazione che elenchi tutti i casi verificatisi: aborti chirurgici, aborti spontanei.
Da qualche anno i numeri emergenti da questa Relazione fanno apparire un calo statistico notevole sia alla colonna delle IVG, sia di quella (importantissima a fini di rilevazione) degli aborti ripetuti, ossia i casi in cui per la donna non si tratti della prima volta.
Molte associazioni, tra cui LAIGA (che fa da portavoce a numerosissimi ginecologi iscritti) lamentano la non veridicità di questi dati, che andrebbero confrontati con una cifra oscura, data dagli aborti clandestini rimasti ignoti al Ministero o a quello presentati come aborti spontanei.
Demotivare le donne a recarsi in ospedale, dopo un aborto clandestino, con l’imposizione del rischio di una multa tanto salata significa, di fatto, far scendere ulteriormente la possibilità di far emergere quei casi e, quindi, riuscire a far apparire il nostro Paese come anti-abortista, il che, peraltro, è un’immagine perfettamente speculare e congruente con il rialzo (in certi casi impressionante) del numero di medici ed infermieri obiettori di coscienza e dei consultori chiusi negli ultimi anni. La media nazionale pare ormai essere pari al 70%, con punte (come in Molise) dove supera il 90% la percentuale del personale sanitario che può legittimamente rifiutarsi non solo di praticare una IVG, ma persino di avviare la pratica preliminare del colloquio e della raccolta della domanda da parte della donna.