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- Categoria: Violenza
- Pubblicato: 27 Novembre 2015
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Il 25 novembre di quest’anno, in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, inauguriamo una nuova collaborazione con Alessia Sorgato, penalista milanese specializzata in reati endofamigliari.
All’interno della sezione apposita, Alessia ci aiuterà a chiarire cosa sia la violenza, in quante diverse forme si sostanzi oggi, come la interpretino e trattino la legislazione e la giurisprudenza, spiegando volta per volta reati, rimedi e novità dal fronte dell’aula giudiziaria o parlamentare.
Inoltre, nei prossimi mesi ospiteremo interviste e spunti e le risposte di Alessia a tutti i vostri interrogativi.
Per chi ancora non la conoscesse bene, Alessia è cassazionista e vittimologa, redattore per il Blog Gli Intrusi de La Casa dei Diritti di Milano (registrato alla stampa periodica col n. 300 del 23 ottobre 2015), Alessia ha pubblicato vari testi giuridici specialistici (con Giuffrè, IlSole24Ore, Cedam e, da ultimo, tre con Giappichelli) ed un saggio – Giù le mani dalle donne – (con prefazione di Maurizio Costanzo, edito da Mondadori) che ha vinto 8 premi letterari.
E’ inoltre consulente di vari sportelli anti-stalking e legale fiduciario di associazioni e centri antiviolenza (come Pangea, Tizianavive onlus e Soccorso Rosa dell’Ospedale San Carlo).
Ormai tutti parlano di violenza domestica, e questo è un bene, ma non tutti ne parlano con cognizione di causa ed esperienza sul campo, e questo è un gran male. Pare che, da fenomeno sommerso e sottotraccia, quello dei maltrattamenti sia diventato un argomento su cui non si può non avere un’opinione, per cui molti/e si affrettano a parlarne, scriverne, discuterne, criticare e proporre. Il risultato è disinformazione e idee confuse, soprattutto per chi – vivendo il problema e subendo le conseguenze – avrebbe invece bisogno di concetti chiari e suggerimenti corretti.
Tralasciando cosa ne dice la legge – imprescindibile punto di partenza, che omettiamo solo in quanto dizione troppo sintetica per fungere da definizione – c’è un’ottima fonte da consultare quando si ricerca il catalogo dei comportamenti che, nelle aule di giustizia, vengono considerati violenza domestica: la giurisprudenza, ossia l’insieme delle decisioni che, anno dopo anno, pronuncia su pronuncia, si assommano sul tema.
A livello legislativo ci basta ricordare la definizione contenuta nella legge di ratifica della Convenzione di Istanbul, a cui abbiamo dedicato un intero settore di questa pagina a cui rinviamo: si intendono per violenza domestica uno o più atti gravi, ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva.
I giudici, compulsati dagli avvocati (che ne sono gli unici interlocutori diretti, insieme ai magistrati del Pubblico Ministero, ossia l’ufficio che riveste il ruolo di Pubblica Accusa nelle indagini e nel processo penale) interpretano la legge, la vivificano, la ammodernano, la adeguano alle situazioni che si registrano nella realtà dei fatti. Senza il lavoro incessante di queste tre figure, che si confrontano e a volte si battono in aula, il diritto si ridurrebbe a formule vuote e sterili, senza agganci a come le cose vanno davvero in strada e nelle case, parole scritte sulle carta senza attinenza alla realtà.
Maltrattare una donna, e/o un bambino, può intanto significare aggredirli, a parole - e quindi con insulti, parolacce, espressioni di scherno, critica, biasimo, malanimo, con false accuse, con continui rimproveri, o ancora denigrarli, controllarli eccessivamente, sminuirli anche davanti ad altre persone – o coi fatti. Violenza psicologica e fisica si equivalgono e spesso si accompagnano – o si danno il turno.
Alzare le mani, e quindi colpire con schiaffi, pugni, spintoni, sberle, pizzichi, equivale a sua volta a sbattere contro il muro, storcere le braccia, fare lo sgambetto per far cadere per terra. Usare arnesi, poi, per fare ancora più male, e quindi ricorrere a coltelli, mazze, bastoni, catene o anche solo usare oggetti a portata di mano (ricordo un caso di una ragazza picchiata con la sua stessa collana e stretta con fili elettrici) può aggravare il comportamento nella misura in cui provoca lesioni più gravi: è importante infatti sapere che, nonostante i maltrattamenti integrino un reato a sé, se comportano ferite (fratture, lesioni, abrasioni, distorsioni e semplici ematomi e lividi) fanno sì che il colpevole venga punito per l’uno ed anche per l’altro reato i quali – si dice in gergo – concorrono tra loro.
Ma maltrattare può essere altresì questione di disinteresse ed omissione.
Ma non basta un singolo episodio, che eventualmente rileverà ad altro titolo ( sarà un’ingiuria o una percossa o un danneggiamento, e così via): per avere maltrattamenti la condizione è che il comportamento dell’autore deve apparire «tendenzialmente abituale, ossia estrinsecarsi nel tempo con più atti, realizzati in momenti successivi, tali da instaurare un sistema di vita tormentato, che imponga ai soggetti passivi un’esistenza dolorosa e difficile, concretizzando una condotta abitudinaria comprensiva di atti lesivi e di prevaricazione» [1].
Eventualmente i comportamenti maltrattanti potranno alternarsi a riconciliazioni e momenti sereni, tipici del c.d. ciclo della violenza, ma cionondimeno verranno puniti in presenza di un secondo elemento costitutivo, ossia l’atteggiamento psicologico del maltrattante, che deve essere animato dalla «grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima» [2], e agire quindi al «fine di rendere penoso il vivere delle persone soggette alla autorità dell’agente» [3], «provocare nel soggetto passivo una situazione di sofferenza fisica o morale, con effetti di prostrazione ed avvilimento» [4].
Questa pagina ospiterà, nei prossimi mesi, sentenze e massime sul tema per contribuire a chiarire e delineare sempre meglio a cosa si allude quando, nell’ambito specialistico che le è proprio, ossia l’aula di un giudice penale, si discute se un comportamento violento, irrispettoso, manesco o gelidamente indifferente arrivi ad integrare maltrattamenti o si fermi a fattispecie minori, con lo scopo di chiarirlo a tutti/e, soprattutto ai non addetti ai lavori.
Lo sapevi che
Per chi si occupa di violenza professionalmente, come me, non è concepibile che, ancora oggi, le donne possano cadere in certi equivoci madornali, che impediscono loro di uscire dal gorgo della violenza, frapponendo ostacoli che esistono solo nei ricatti dei loro aguzzini.
Di seguito i più ricorrenti tra i consigli che ho fornito, cercando di fare chiarezza sui punti nevralgici che, più spesso, tornano nelle parole delle vittime di violenza:
1)Se una donna continua a subire violenze e abusi solo perché non ha una propria autonomia economica, può chiedere e ricevere il patrocinio dello Stato, che le assegnerà un avvocato specializzato in materia sostenendo per lei ogni spesa processuale;
2)Un comportamento di sistematica violenza economica perpetrata da un marito nei confronti della moglie, privandola del minimo e necessario sostegno economico, può entrare nel novero dei maltrattamenti e quindi costituire reato;
3)Chiunque sia testimone di una violenza (come un vicino di casa), soprattutto quando essa sia protratta nel tempo, può denunciare la situazione alle forze di Polizia, con la certezza di mantenere nei confronti di vittime e carnefici l’anonimato;
4)Le denunce utilizzate unicamente come forma di “rimprovero”, nei confronti di un uomo violento, e poi ritirate, su richiesta del maltrattante “pentito”, non sono mai risolutive perché impediscono alla Autorità giudiziaria di intervenire concretamente;
5)La remissione di querela da parte di una vittima, nei casi che la legge considera talmente gravi da far procedere d’ufficio o considerare irrevocabile la querela stessa , può non essere avvallata dall’autorità giudiziaria, che proseguirà nell’iter processuale indipendentemente da eventuali ripensamenti della diretta interessata;
6)Anche la rete può essere un contesto per attuare molestie. Oggi il legislatore considera il così detto cyber stalking come una forma aggravata della categoria degli “atti persecutori”. Le forze dell’ordine specializzate in questo reato e nel revenge porn fanno capo alla Polizia Postale;
7)La diffusione tramite e-mail, Facebook e altri social network e canali web di immagini compromettenti, informazioni private, dati personali di terze persone, può facilmente configurarsi come un reato di “diffamazione aggravata”;
8)Camuffare la propria identità on- line, ai fini di recare danno o adescare una persona di minore età è punibile penalmente con reclusione fino a un anno;
9)Anche la sola detenzione di materiale pedopornografico, ovvero contenente immagini e video erotici con soggetti di minore età, costituisce reato;
10)E’ considerato reato, includibile nella categoria “atti di violenza sessuale”, non solo lo stupro, ma anche il palpeggiamento o la coercizione al bacio;
11)Essendo decaduto il principio del “debito coniugale” è denunciabile anche un marito che obbliga la moglie a “concedersi” o ad accettare modalità di rapporto sessuale non volute.
Cosa abbiamo
Convenzione di Istanbul
Attualmente adottata da 14 paesi dell’Unione, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011 è entrata in vigore nel nostro Paese per condannare ufficialmente e solennemente ogni forma di violenza sulle donne.
Il Preambolo è fondamentale perché enuncia gli scopi ed i considerando preliminari che hanno portato alla sua ideazione e redazione: sono concetti che tuonano, per cominciare, riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne.
Si legge infatti che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione e ancora che ha natura strutturale in quanto basata sul genere.
La violenza contro le donne – si legge ancora - è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Ogni forma di violenza è contemplata dalla Convenzione: la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto "onore" e le mutilazioni genitali femminili.
Ricordati i principi ispiratori, va detto che non tutte le norme contenute nella convezione sono state già recepite con la legge di ratifica n. 119 del 2013.
Certamente si è provveduto ad inserire nel nostro ordinamento ottime innovazioni quali il contraddittorio con la persona offesa nella fase cautelare (art. 56 Conv.), il concetto di violenza assistita, le circostanze aggravanti se la violenza sessuale è commessa nei confronti del coniuge, anche separato divorziato, o partner, anche non convivente (art. 46 Conv.)
E ancora con la Convenzione di Istanbul abbiamo aggiunto una importante misura cautelare – l’ allontanamento dalla casa d’urgenza ad opera della Polizia Giudiziaria – che si aggiunge ad altre norme importanti come quella che, introducendo l’obbligo di contribuzione con l’assegno mensile al nucleo rimasto in casa, consente alla donna di rimanervi, sollevandola dal peso di dover scappare .
Ma c’è ancora da fare (confronta infra nella sezione Cosa vorremmo avere) e per raggiungere quelle mete siamo tutte chiamate ad impegnarci, ciascuna nel suo ambito, perché anche le buone intenzioni si traducano in buone prassi.
Basti pensare che anche lo Stato italiano dovrebbe adottare misure per incoraggiare gli uomini e i ragazzi a contribuire attivamente alla prevenzione della violenza oggetto della Convenzione, e quindi adottare programmi di intervento volti agli autori delle violenze per prevenire la recidiva e ancora accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenza, indipendentemente dalla volontà della vittima di intentare un procedimento penale o di testimoniare conto ogni autore di tali reati.
Istat
Nel giugno 2015 sono finalmente stati aggiornati i dati, che risalivano ormai al lontano 2006, relativi all’indagine sulla Sicurezza delle donne ed i suoi esiti offrono un quadro dettagliato della violenza fisica e sessuale subita dalle donne nel nostro Paese.
Fondamentalmente sommersa e non denunciata, la violenza contro le donne assume una connotazione più ampia, trasversale al territorio e alle diverse estrazioni sociali.
Il fenomeno si sviluppa soprattutto dentro le mura domestiche e questa peculiarità viene confermata analizzando gli omicidi subiti dalle donne. Dai dati dell’indagine emerge un quadro molto critico: il 7% circa delle donne che vivono in coppia è vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner, il 17% delle donne che hanno avuto un partner in passato è stata abusata da questo, il 20% delle donne subisce di frequente situazioni di violenza psicologica nella coppia e il 18% delle donne ha subito atti persecutori durante o dopo la separazione da parte dell’ex-partner. Alle violenze in famiglia si aggiungono, inoltre, le violenze da altri autori (complessivamente per il 24,7% delle donne): parenti, colleghi, amici, conoscenti e, infine, gli sconosciuti, autori nella maggior parte dei casi di molestie fisiche.
Per quanto riguarda il dettaglio degli omicidi per età della vittima, nel 2012 il tasso è stato più alto nei confronti degli uomini di 25-34 anni (2 per 100.000 maschi) e per le classi di età attigue: 1,8 per quelli di 35-44 anni e 1,9 per quelli di 45-54 anni. Per le donne, le classi di età a maggior rischio sono 25-34 anni e oltre i 65 anni (entrambe con tassi pari allo 0,8 per 100.000 femmine). Nel 2011, invece, i tassi maggiori riguardavano le donne di 18-24 anni e quelle di 45-54 anni. Nella fascia d’età più giovane (meno di 14 anni) non ci sono differenze di genere (0,2 per 100.000 abitanti).
Rispetto alla precedente rilevazione Istat sulla violenza contro le donne, datata 2006, il nostro sistema giuridico è stato implementato in maniera rilevantissima, anche grazie ad obblighi assunti in sede internazionale sottoscrivendo Convenzioni cruciali come quelle di Lanzarote e di Istanbul. Oggi lo stalking è un reato, aggravato se commesso dal coniuge – anche separato – o dal partner (attuale o ormai ex), nonché attraverso strumenti informatici o telematici (il c.d. cyberstalking). Oggi la violenza assistita, ossia quell’orrendo fenomeno per cui un bambino, pur non maltrattato personalmente, è costretto a vedere sua mamma vittima di percosse o di ingiurie, è un’aggravante comune, cioè eleva la pena. Oggi la Polizia Giudiziaria può allontanare da casa d’urgenza l’uomo violento.
Istat scrive che non emergono particolari differenze a livello territoriale, tuttavia la violenza fisica e sessuale è più diffusa al centro – sud, mentre gli atti persecutori vedono il primato del Sud (17,4%) seguito dal Nord-Ovest (15,09), mentre nel resto d’Italia le cifre sono più o meno equivalenti. Qui bisogna ricordare soprattutto il cambiamento registrato rispetto al Rapporto del 2006, dove primeggiava statisticamente il dato del Nord Est (14,2% oggi sceso al 10,7%) ed il trend, altrettanto decrescente, delle Isole. Si può attribuire questa differenza sia all’approccio con l’informazione, forse più diffusa in certe zone, sia a certi retaggi ambientali più duri da sostituire. Vero è che al Nord sono molto più numerosi i servizi – sportelli antistalking, centri antiviolenza, ecc. – e che al centro sud quelli esistenti lottano per reperire fondi.
Piano straordinario
Lo aspettavamo dal lontano 14 agosto 2013, quando il DECRETO-LEGGE n. 93 (in Gazz. Uff., 16 agosto 2013, n. 191) convertito, con modificazioni, in Legge 15 ottobre 2013, n. 119, introducendo Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, al Capo I dedicato alla Prevenzione e contrasto della violenza di genere, lo prevedeva all’ Articolo 5 (poi sostituito dall'articolo 1, comma 1, della Legge 15 ottobre 2013, n. 119, in sede di conversione).
Lo definisce Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (1) e lo affida al Ministro delegato per le pari opportunità, perché elabori, con il contributo delle amministrazioni interessate, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza, e lo adotti, previa intesa in sede di Conferenza unificata, in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020.
Le sue finalità, all’epoca dichiarate, sono (o dovevano essere):
a) prevenire il fenomeno della violenza contro le donne attraverso l'informazione e la sensibilizzazione della collettività, rafforzando la consapevolezza degli uomini e dei ragazzi nel processo di eliminazione della violenza contro le donne e nella soluzione dei conflitti nei rapporti interpersonali;
b) sensibilizzare gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione e informazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere e, in particolare, della figura femminile anche attraverso l'adozione di codici di autoregolamentazione da parte degli operatori medesimi;
c) promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere e promuovere, nell'ambito delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, delle indicazioni nazionali per i licei e delle linee guida per gli istituti tecnici e professionali, nella programmazione didattica curricolare ed extracurricolare delle scuole di ogni ordine e grado, la sensibilizzazione, l'informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un'adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo;
d) potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza;
e) garantire la formazione di tutte le professionalità che entrano in contatto con fatti di violenza di genere o di stalking;
f) accrescere la protezione delle vittime attraverso il rafforzamento della collaborazione tra tutte le istituzioni coinvolte;
g) promuovere lo sviluppo e l'attivazione, in tutto il territorio nazionale, di azioni, basate su metodologie consolidate e coerenti con linee guida appositamente predisposte, di recupero e di accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di violenza nelle relazioni affettive, al fine di favorirne il recupero e di limitare i casi di recidiva;
h) prevedere una raccolta strutturata e periodicamente aggiornata, con cadenza almeno annuale, dei dati del fenomeno, ivi compreso il censimento dei centri antiviolenza, anche attraverso il coordinamento delle banche di dati già esistenti;
i) prevedere specifiche azioni positive che tengano anche conto delle competenze delle amministrazioni impegnate nella prevenzione, nel contrasto e nel sostegno delle vittime di violenza di genere e di stalking e delle esperienze delle associazioni che svolgono assistenza nel settore;
l) definire un sistema strutturato di governance tra tutti i livelli di governo, che si basi anche sulle diverse esperienze e sulle buone pratiche gia' realizzate nelle reti locali e sul territorio.
Cosa vorremmo avere
Istanbul non attuata
Abbiamo premesso che ci sono disposizioni della Convenzione ancora inattuate perché non espressamente recepite dalla legislazione interna, ma ciò non significa che siano meri slogan senza efficacia, anzi, possono costituire ottimi spunti per stimolare la concreta messa in moto di tutte le misure di protezione elencate dal Consiglio d’Europa. Una delle norme su cui si può davvero lavorare è l’art. 56, che stabilisce il diritto della vittima ad acquisire informazioni sullo stato di detenzione dell’indagato/imputato/condannato.
La L. 119/2013 e L. 38/2009 hanno rispettivamente modificato l’art. 299 c.p.p. e introdotto l’ art. 282 quater c.p.p., per cui ogni qualvolta l’uomo chieda una modifica sulla sua condizione cautelare (ad esempio uscire dal carcere per andare agli arresti domiciliaria) va sentito il parere della vittima, ma questo non basta.
Esistono molte altre situazioni in cui riacquista la libertà nelle quali non è previsto alcun preavviso alla pare lesa: per es. l’evasione del detenuto, l’uscita per decorrenza termini, la scarcerazione ad opera del Tribunale del Riesame e così via.
Una donna può stare tranquilla a casa, rasserenata dall’intervenuto arresto del suo carnefice, e vederselo comparire all’uscio senza preavviso alcuno.
L’angolo delle buone nuove
Questa sezione è dedicata alle ultime sentenze, che stabiliscono buoni principi a favore delle vittime, allargando – millimetro per millimetro – lo spazio di azione dei loro legali e contribuendo ad accorciare la distanza (oggi abissale) tra i diritti della difesa dell’imputato e quelli del patrocinatore di parte civile.
Anche se sono trascorsi molti anni, e si è accumulata ottima esperienza giudiziaria in favore delle donne sul banco dei testimoni d’accusa contro i loro uomini, anche se la Cassazione ripete sovente che una parte lesa può, da sola, con le sue dichiarazioni, fondare una condanna a carico del suo persecutore, la realtà giudiziaria non ammette deroghe a regole processuali ferree sulla raccolta della prova e sulla necessità di conferme alle denunce. Ogni smagliatura, ogni non ricordo, ogni contraddizione in cui la vittima cade durante la sua deposizione viene accuratamente soppesata e, eventualmente, usata a difesa dell’accusato.
Uno dei “cavalli di battaglia” degli uomini maltrattanti o degli stalker (e quindi dei loro difensori) suona più o meno come questo adagio: ma se davvero lui le faceva passare l’inferno, perché lei non lo ha denunciato prima, perché ci ha convissuto tutto questo tempo, perché ha tardato persino a confidarsi?
Il 30 ottobre 2015 la Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza n. 43943, ha piantato un “paletto” in questa sorta di linea difensiva: in un processo per maltrattamenti in danno di una moglie, ove il ricorso contro la condanna si basava anche sul ritardo con cui la vittima si convinceva a denunciare i fatti, ha conferito pregio all’ <intreccio di sentimenti contrastanti di affetto e di paura, nonché alla situazione di dipendenza psicologica ed economica che sovente connota i rapporti famigliari>.
La pronuncia appare tanto più preziosa se solo si considera che, in primo grado, quel marito era stato assolto, e che l’esito favorevole poi ottenuto in appello era merito solo della pervicacia con cui si era proceduto oltre (su impugnazione del Pm e/o della vittima).
La motivazione dei Giudici Supremi merita di essere riportata testualmente: “Risponde infatti ad una condivisibile massima di esperienza che le persone offese di reati commessi in ambito famigliare siano spesso restie a rendere pubbliche le loro tristi vicende, e ciò in considerazione dell’intrecciarsi di sentimenti contrastanti di affetto, paura, risentimento, che spesso connotano le relazioni fra congiunti o di situazioni di dipendenza psicologica ed economica che possono costituire un freno alla denuncia ai maltrattamenti subiti. Senza dover pensare al caso limite conosciuto nella letteratura scientifica come “sindrome di Stoccolma”, non è inconsueto riscontrare nella prassi, soprattutto in contesti famigliari consolidati o comunque connotati da legami sentimentali particolarmente intensi, quella situazione emotiva – che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva – che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un’altra e la predispone ad accettare qualunque compromesso, piegandosi alla volontà dell’altro fino ad annullare la propria dignità, pur di ottenere affetto e riconoscimento.
Nei rapporti tra soggetto maltrattante e vittima delle violenze e vessazione è frequente riscontrare un’ambiguità di sentimenti suscettibile di portare quest’ultima, nonostante le sofferenze cagionate dal partner, ad accettare la prosecuzione della relazione, da un lato, per l’esistenza di un forte legame affettivo, di un “amore malato”, tale da creare una controspinta dovuta a dinamiche da dipendenza; dall’altro lato, per la soggezione psicologica determinata proprio dall’azione di coartazione esercitata dall’agente nei confronti di una persona offesa.
La resistenza a formalizzare una denuncia nei confronti del soggetto maltrattante può dipendere dal timore di compiere scelte che possano provocare la dissoluzione dell’unità famigliare e comportare pregiudizi di natura economica o scompensi affettivi per i figli, piuttosto che dalla paura di subire gravi reazioni aggressive da parte di chi si sappia aduso abbandonarsi ad accessi violenti”.
[1] Corte d’appello de L’Aquila, 11 marzo 2011, n. 448, in Redazione Giuffrè, 2011.
[2] Tribunale di Napoli, 25 marzo 2004.
[3] Tribunale di Udine, 17 ottobre 2006.
[4] Corte di Cassazione, sezione VI penale, 1^ febbraio 1999, n. 3580.